sabato 21 aprile 2018

Siri Ranva Hjelm Jacobsen, "Isola", Iperborea


 In un'epoca come la nostra - di migrazioni massicce e talvolta dolorose, che però spesso non portano il migrante a troncare del tutto i rapporti col suo Paese d'origine (come per lo più avveniva nei secoli passati) -, mettere a fuoco la psicologia di chi si sposta da un angolo all'altro del mondo, e analizzare i legami suoi e dei suoi discendenti con le proprie radici remote e con la propria nuova patria è quasi un dovere per chiunque voglia cercare di capire il mondo in cui vive.
 Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen fa anche di più: declina liricamente la sopravvivenza nella psiche del migrante dell'universo che si è lasciato alle spalle, e ne esplora tutte le implicazioni; solo che il contesto migratorio che viene descritto è affatto diverso a quelli a cui siamo abituati.
 Infatti il nonno e la nonna materni dell'autrice - abbi e omma, Fritz e Marita - si trasferiscono sul finire degli anni Trenta del Novecento dalle remote isole Faroe (le diciotto "Isole delle pecore") alla Danimarca, a cui pure amministrativamente l'arcipelago appartiene.
 Fritz parte perché vuole andare in cerca di una vita diversa, che non lo costringa alla scelta tra fare l'allevatore o fare il pescatore: gli piacerebbe studiare per diventare ingegnere elettronico, ma le circostanze lo condurranno a diventare insegnante.
 Marita parte più tardi per raggiungere il fidanzato, ma la sua partenza è legata a un segreto: quando si imbarca, la ragazza ha ancora il ventre dolorante per via dell'aborto che si è procurata per eliminare le tracce della gravidanza conseguente alla sua relazione clandestina con il fratello di Fritz, Ragnar il Rosso, l'unico comunista del suo villaggio, amante dei libri, della filosofia, della tecnologia.
 Fritz e Marita si ritroveranno a Copenaghen, si sposeranno, avranno una figlia, vivranno una vita lunga e felice, ma non dimenticheranno mai la propria terra: la lingua faroese resterà per sempre il loro intimo codice espressivo, un mondo da cui la figlia - la madre dell'autrice - si sentirà costantemente esclusa; gli amici e i parenti rimasti in patria conserveranno un posto privilegiato nella loro geografia degli affetti; il fiero spirito indipendentista faroese resterà parte integrante del loro modo di pensare e di sentire, e li aiuterà a superare gli anni bui della Seconda guerra mondiale, quando la Danimarca sarà occupata dalle truppe tedesche (nonostante si fosse proclamata neutrale), mentre le Faroe fungeranno da base per la marina inglese nel nord dell'Oceano Atlantico.

 Siri Ranva Hjelm Jacobsen

 Il cuore del libro è costituito dalla riscoperta e dal recupero di tutte queste cose da parte dell'autrice stessa, rappresentante della terza generazione dei migranti, quella che "è una coperta troppo corta: totalmente disinvolta e libera da condizionamenti culturali, oppure a casa solo per metà".
 Così, dopo la morte della nonna, la protagonista-narratrice sente l'esigenza di ritrovare il legame con la terra dei suoi antenati, con i suoi paesaggi, con il suo clima, con le sue leggende, grazie alla mediazione dei genitori - laddove possibile - e ai ricordi d'infanzia, e alla memoria dei racconti dei nonni, e a vecchi parenti ancora in vita.
 Il suo viaggio a Vagar è un'immersione in un'atmosfera senza tempo, in cui la storia della centrale di ricezione radio che, ai tempi della guerra fredda, serviva ad ascoltare le comunicazioni scambiate fra loro dai sovietici convive con la leggenda antichissima secondo cui alcune delle isole dell'arcipelago un tempo sarebbero state isole galleggianti; il ricordo dell'epica difesa di un medico del locale ospedale, accusato di essere stato un nazista, da parte di tutti gli abitanti dell'arcipelago, in nome della propria indipendenza e autonomia di giudizio sopravvive insieme alla memoria del tentativo fallito da parte di Ragnar il Rosso di sradicare con l'esplosivo un masso dal terreno sul retro della propria casa, che si diceva custodire creature soprannaturali; la vicenda della costruzione della vecchia centrale elettrica si incrocia con il racconto delle gesta del "gabbiano di Beate", che stabilì il proprio nido sul tetto della casa della moglie di Ragnar il Rosso, negli ultimi anni della sua vita.
 Il libro è bello, perché dà la sensazione di essere l'espressione di una necessità profonda, di un anelito identitario che nella sua estrema peculiarità appare veramente universale, alieno dal particolarismo gretto ed egoistico delle rivendicazioni identitarie figlie del nazionalismo a cui siamo abituati.
 Il linguaggio utilizzato dalla Jacobsen è uno dei caratteri più originali del libro: evocativo, immaginifico, stilizzato, fluttuante, riesce a passare repentinamente da una descrittività estremamente precisa e concreta a una vaghezza assolutamente onirica, dall'ironia scanzonata alla numinosità narcotica. Tutto questo è talvolta molto efficace; altre volte appare forse un po' troppo lontano dalla nostra sensibilità letteraria.

Voto: 6+

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